Il Museo delle Civiltà Anatoliche di Ankara, Turchia

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Scegliere le foto da allegare a questo articolo non sarà facile. Quando si entra al Museo delle Civiltà Anatoliche di Ankara, capitale della Turchia (e no, non è Istanbul la capitale), si muovono i propri passi in un mondo meraviglioso, pieno di animali che sembrano scrutarti dalle teche o girarti intorno tra gli immensi bassorilievi. Divinità sotto forma di statuetta danno il benvenuto e ci si meraviglia per la sconfinata fantasia dei popoli di millenni or sono. Quanto di tutto questo abbiamo perso o sostituito? È un bene o un male? È davvero progresso sotto tutti i punti di vista il nostro vivere moderno? Queste sono le domande che mi frullavano in testa mentre vagavo meravigliata sotto le cupole dell’antico mercato coperto, trasformato in museo tra la fine degli anni ’30 e la fine degli anni ’60 del secolo scorso.

Ad accogliermi sono state le riproduzioni di due delle steli di Göbekli Tepe, antichissimo tempio, forse risalente al 10.000 a.C. secondo alcuni studi e le datazioni al carbonio-14 di alcuni stucchi organici rinvenuti sulle pareti. Certo, non siamo davanti agli originali, ma l’emozione rimane forte se pensiamo a cosa l’uomo di quei tempi, spesso considerato involuto rispetto a noi, sia riuscito a concepire e realizzare. Selfie d’obbligo, nella speranza di potere ammirare le vere steli nel loro sito di ritrovamento prima o poi nella mia vita. 

Continuando la visita non mi sono sentita mai sola, dalle teche tanti simpatici occhi mi hanno accompagnata. Tori, leoni, cinghiali, piccoli dei, gatti, creature fantastiche, tutti intorno a me nel loro mondo che non conoscevo prima. Che raffinatezza, che cura dei dettagli anche in statuine grandi come la falange di un dito! Lavorando nel mondo delle immagini, mi è stato impossibile non comparare il nostro modo di esprimerci e il “loro”. Tra 12.000 anni, cosa sarà rimasto dei nostri NFT o delle nostre fotografie digitali photoshoppate? L’archeologia stessa subirà un declino o si trasformerà in archeologia digitale alla ricerca delle tracce impalpabili della nostra “avanzata” realtà? L’archeologo non scaverà più nella terra per riportare alla luce tesori, ma sarà un esperto informatico che riuscirà a “rivitalizzare” files corrotti dal tempo e ormai illeggibili dai nuovi supporti? Esisterà ancora la distinzione tra analogico e digitale? Domande destinate a restare insolute, e va bene così, noi non ci saremo più, di cosa ci vogliamo preoccupare? E invece la stessa preoccupazione che giustamente infiamma i giovani per tramandare un pianeta ecologicamente sano a chi ci succederà, dovrebbe infiammare il cuore degli artisti. Un popolo senza passato non sa dove andare, ma un popolo che conosce il suo passato, anche e soprattutto attraverso testimonianze scritte, dipinte o scolpite, sa dove orientarsi, conoscendosi profondamente. La nostra “civilizzazione” da una parte è così piena di sé, del suo progresso, ma dall’altra sembra così priva di autostima tanto da non voler lasciare traccia di sé su supporti duraturi. La pietra, la pergamena, il papiro, la terracotta… cosa resterà di noi, uomini digitalizzati?

L’espressività artistica dei pezzi conservati in questo museo, meraviglia e affascina, e non è virtuale! Davanti ad essa non può non sorgere il dubbio che la realtà virtuale non serva a nulla. Che cosa ci spinge a creare un vuoto alternativo irreale ad una realtà materiale già stupefacente di per sé? A cosa serve metterci dietro a degli occhialoni e vedere cose che non esistono se quelle che esistono sono ancora più belle, piene e complete? Di cosa abbiamo bisogno? Cosa cerchiamo? La bellezza che l’uomo non sa più creare nel mondo tangibile?

Forme vere che incantano… Idee riprese dall’arte appena precedente alla nostra sono ovunque: “È un Brancusi quello? Ah no, è di secoli prima di Cristo, eppure l’essenza è la stessa!”. I dialoghi tra artisti attraverso i secoli sono tra le cose più preziose che abbiamo. L’Arte (volutamente con la maiuscola) è una forma di linguaggio che permette di tenersi in contatto attraverso epoche e lontane notti dei tempi. L’Arte permette di comprendere il suo senso anche se non si conosce la lingua di chi l’ha creata, anche se non si è dello stesso continente o dello stesso periodo storico. É Arte la nostra? Riuscirà a parlare a chi verrà? Può un’arte di cui la gente del medesimo periodo storico fatica a comprenderne il senso, avere un senso per chi non ci conoscerà se non attraverso di essa?

Lo so, sono domande faticose, al di là di esse, la visita al museo vale il viaggio fino ad Ankara, magari nel contesto di un giro per quelle terre. Preparatevi a meravigliarvi e forse a porvi domande che non vi siete mai posti.

Giulia Calvanese per Radio Bla Bla Network News

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